GIUSEPPE TRENTACOSTE, il “Gran Saccàio”

di Giorgio Barassi.
Ho sempre interpretato il pugilato come un lavoro da svolgere al meglio, senza distrazioni, sempre ricordando ciò che mi insegnò il mio primo maestro: puoi sentirti il re del mondo, ma basta un decimo di secondo per trovarti col sedere per terra.
(Bruno Arcari)

Per evitare un inizio da incidente diplomatico, visto che lui, Giuseppe Trentacoste detto Beppe, ha le sue preferenze in fatto di pugili, ed io le mie, per scrivere del Gran Saccàio ho scelto una frase di un bravo pugile italiano che in tanti hanno dimenticato. In quelle parole di Bruno Arcari trovo il sentimento fondante delle carriere di Beppe: quella di pugile e quella di artista.
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Non si scandalizzino i benpensanti, né rabbrividiscano i puristi. Non inneggino a Beppe i contestatori ad ogni costo né nicchino stizziti gli sfavillanti artisti alla moda. Beppe è semplicemente in quelle parole, perché il sacrificio e le fatiche della boxe, che lui conosce per diretto dolore e indiscusse vittorie, sono stati per lui i fondamentali a cui fa riferimento anche, e soprattutto quando crea, plasma, dipinge, contorce, distende, decora e ricuce i suoi sacchi. Mai lo si vedrà tronfio per gli apprezzamenti, che pure sono molti, né abbattuto per le fisiologiche vicende avverse. Beppe Trentacoste sa che la distrazione non gli è concessa. La sua arte e la sua noble art sono trattate con la stessa meticolosa preparazione. Pensieri ed idee devono stare dentro gli spazi di un’opera come un pugile nel quadrato. Guai a chi va al tappeto. E così, sacco dopo sacco (e parlo di quelli di juta) idea dopo idea, convinzione su convinzione, Giuseppe Trentacoste sta prendendo il suo vertice nel rutilante mondo dell’arte contemporanea, oggi più di ieri, con nuove idee e nuove avventure che riguardano soprattutto, e ci tiene a sottolinearlo, il “corpus” della sua opera. Quei sacchi che hanno viaggiato, che sono stati sulle spalle di qualcuno, che furono ammassati nella stiva di una nave cariche di spezie, di caffè o di cacao e sono arrivate fino a lui, che ne veste l’aspetto omogeneo con la saggezza e la sapienza di chi non dimentica le lezioni dell’arte a lui precedente e non risparmia il colpo diretto, se c’è da sfoderare l’ironia o il sarcasmo.
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Perché l’educazione artistica di Trentacoste, nata in una terra straricca di arte ed arti, la Toscana, è soprattutto rispetto delle regole. Dalle quali lui pare allontanarsi solo quando insiste nella sperimentazione, salvo ricullarcisi quando i temi diventano popolari, gradevoli, umani, addirittura romantici e perfino sdolcinati. E così prendono corpo animali, facce evocative di antichi dei, sagome facciali distorte, allungate, da espressioni grottesche o sognanti, usate per ammonire e raccontare. Ma quei sacchi servono all’ artista soprattutto per raccontarsi. Beppe li scova, li distende, li rispetta lasciando anche la minima macchia o una traccia di un appunto a penna scritto da un commerciante o da un facchino. Talvolta li scuce per ricucirli insieme. E quelli sono i momenti in cui la sua anima agitata, da sportivo in trance agonistica, cerca serenità nelle sue creazioni, che appaiono invece distese e perfettamente aderenti al piano della lavorazione quando è in giornata ed affonda i colpi con sicurezza, vigore e una creatività sconfinata.

Il materiale plastico modellabile viene ricoperto dal sacco prescelto, e prende le fattezze di quel che sarà con un gioco di adeguata manualità che fa pensare a come quelle dita, pericolose se racchiuse in un guantone, siano così delicatamente accorte e capaci di dar forma ed espressio- ne. A questa prima fase ne segue una di indurimento del calco, svuotamento dal materiale plastico e successivi passaggi con le resine trasparenti, che rendono eterno quel che è fatto e fanno leggera l’opera. L’anima di un bassorilievo e la struttura di una operazione artistica moderna.
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È continuo, in Trentacoste, il richiamo alla osservazione del sociale. E così i suoi camaleonti colorati siamo noi, trasformati in animali che si adattano, come ci è capitato nella sventura della pandemia. Nello stesso modo il grido di un indio dell’Amazonia è l’urlo stesso di chi vede il mondo scomparirgli sotto i piedi, e il pugile a braccia alzate non è certo un vincitore assoluto, ma colui che, come lo stesso Trentacoste, si è guadagnato la vita faticando, riempiendosi di lividi e cicatrici. Non manca la rappresentazione della imbattibile favella toscana, quando ironizza su artisti da record in asta asserendo che l’arte è umana e raffigurando la faccenda con una scimmia e la sua banana. Ma appare anche un mondo di favola, in paesaggi come una illusione di serenità a cui tutti ambiscono, le citazioni di Leonardo in alcune figure, le facce di Dalì o altri grandi della pittura e i riferimenti allo spazio, alla vita stessa, al nostro colpevole rinunciare agli ideali, che in lui sono invece saldissimi. Da sportivo, ha subito il colpo, in questi ultimi tristi tempi, della scomparsa di alcuni grandi atleti. L’omaggio al suo concittadino Paolo Rossi e al Pibe de Oro Maradona ne sono sentimentale prova.
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Ultimamente è il sentimentale istinto paterno ad averlo ispirato. La sua figlia più piccola, giudice come solo i bimbi sanno essere, ha apprezzato particolarmente le opere del papà Saccàio perché decorate con fantasiosi glitter a sottolineare un tema caro a Trentacoste: l’amore visto con gli occhi dei bambini. Avendo visto la sua piccola giocare con quei palloncini modellati a forma di animale da mani esperte e gli altri bimbi in un parco, ha iniziato a produrre tele piegate ricche di riferimenti all’amore, ma stavolta quello che solo i più piccoli sanno esprimere e vivere in maniera incondizionata. A loro basta un gioco, un palloncino, il chiasso allegro. E così Beppe ha capito che l à stava nascendo una delle tante fonti di ispirazione peer il suo creare sempre in movimento, incluso nella misura imposta di un’opera, ma agile, attivo, mai domo. Come Mohammed Alì sul ring.
Può far di tutto, coi suoi sacchi. Tanto da aver meritato per mia nomina l’appellativo di Gran Saccàio. Può parlarci di vita e di morte, di epica e di miti, della vita che ci manca, quella del bar e delle piazze, di sentimenti e passioni e della vita che deve continuare. Perché per Trentacoste la sfida non finisce mai, e riemerge la sua voglia di presentarsi spavaldo sul ring comparendo fra le corde, ma non per urlare all’avversario che lo farà a pez- zi. Solo per ricordarci che l’anima stessa della creatività va salvaguardata sperimentando, provando, sacrificandosi, sbagliando per correggere e correggersi. Solo per darci altre prove della sua totale capacità di muoversi nel creare le sue opere come si muoverebbe lui stesso sul quadrato: senza mai farsi mancare la saldezza. Da fiero difensore prontissimo all’attacco.
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Se solo ci si lascia prendere dal contenuto del suo gesto creativo, adeguato alle trame antiche del sacco e presentato in forme inusuali ma gradite, si può convintamente affermare che Trentacoste non è classificabile in una corrente artistica, perché ha creato un mondo tutto suo, in cui contano i valori della capacità ed ancor più quelli del rispetto e della correttezza nel comporre. Faccenda che, da un po’, non pare riguardare chiunque creda di essere in grado di creare, e perciò di notevole importanza.
Trentacoste sa che la sua faccia da duro si adegua bene al mondo della boxe. Ma sa anche che la sua arte, come la sua anima, è figlia delle dolcezze dei declivi toscani. È parimenti figlia di origini siciliane, come quelle di Domenico Trentacoste, suo antenato, che fu altissimo scultore e docente alla Accademia delle Belle arti di Firenze agli inizi del Novecento. Ed è figlia di un’aria pura, respirata con orgoglio ad ogni costo.

La presenza delle opere del Gran Saccàio è costante nelle puntate di Laboratorio Acca. E noi stessi, in studio, sappiamo bene che quando ci si avvicina al suo lavoro per parlarne, non si riesce a dare tutta la reale percezione di quanto le sue opere siano piene di entusiasmo, impegno, vitalità ed emozioni purissime. Ma il pubblico è scaltro, e gradisce in silenzio il sapersi assortire che Beppe ha nelle vene, quella insaziabile voglia di dare sfogo alla sua tecnica ed alla sua preparazione, pari sempre alla invenzione, al gesto inatteso e vincente che nel suo lavoro si legge grazie ai particolari, alle aggiunte, ai dettagli che sfuggono al primo sguardo ma non passano inosservati a chi sa osservare come si fa con ciò che intimamente vale.

Giuseppe Trentacoste detto Beppe sa che il suo cammino sarà lungo e faticoso, e questo per lui è stimolo e ragione di studio e di applicazione. Lui va per la sua via. Delicato coi sentimenti e deciso quando c’è da combattere. In fondo la vita è un ring, e guai a chi molla. Beppe, il Gran Saccàio, può muoversi a suo piacimento perché sa di avere il colpo giusto da sferrare. Ed è davvero impossibile prevenire le sue mosse, intelligenti e sagaci, di grande creatore. In una foto appare piccolino di fronte ad una sua installazione alta sei metri e fatta coi suoi sacchi, le sue “tele piegate”. Rinuncia al suo apparire corpulento ed atletico per dare tutto lo spazio a quelle anime anonime e vaganti che raccontano il mondo, la storia, la vita. Altri avrebbero detto con spavalderia “…ho fatto una installazione enorme…”. Lui preferisce commentare con un semplice “… Sai icchè fo’ ? … E ne fo’ una più grande, vai…”. Perché non ha il minimo interesse ad accontentarsi. Quando crea i suoi lavori (splendidi quelli colorati in pigmento naturale, come avrebbe fatto un artigiano del medioevo) non conclude per riposare. Poco, pochissimo tempo, come accadeva nell’angolo per riprendere fiato, e via. Ricomincia, raccoglie, plasma, inventa, racconta. L’arte e la boxe gli hanno insegnato che solo chi combatte ha diritto al premio. Ripresa dopo ripresa, sacco dopo sacco.