Gallingani. Il pugile dal colpo letale.

Un campione è qualcuno che si alza quando non può.
(Jack Dempsey)
A cura di Giorgio Barassi.
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Il centrattacco è anche pugile, sicuro.
Se abbiamo paragonato Gallingani ad un antico centrattacco dalle movenze moderne, nondimeno il suo attuale operato è paragonabile a quello di un boxeur astuto, a tratti apparentemente incerto sulle gambe, ma fortemente dotato della “sventola” micidiale che non ha bisogno di essere illustrata con eccessi di dettaglio. La “noble art” ci ha consegnato atleti di ogni valore e tempra, ma ci ha anche abituati a capire che dalle parti di quelle sventagliate di cazzotti è meglio non capitare. Soprattutto quando uno, un pugno solo, arriva a destino come una punizione esatta, viaggia veloce attraverso spazi che sembrano impossibili agli umani, con velocità imprevedibile quanto la direzione, e tramortisce l’avversario, a cui rimane il destino di reagire o quello di cadere mollemente, ferito nell’orgoglio del fisico e dell’anima.
Una di quelle botte secche e dirette, o uno di quei ganci precisi che il mento non regge, facendo ondeggiare il capo dell’avversario in maniera innaturale e costringendo la bianca camicia dell’arbitro in farfallino nero ad interporsi fra il destinatario del colpo ed il suo autore, ad evitare il peggio. Chi marchia il racconto di eccessiva crudeltà, non conosce la boxe.
Nello stesso modo, con quella stessa spaventosa efficacia, il Metarealista Gallingani ci pone di fronte al racconto del reale affibbiandoci sonore sberle che escono dalla piattezza della superficie del quadro e colgono a volte impreparato l’acuto osservatore. Non che Gallingani, in tempi recenti, abbia solo alzato la voce, né che si sia messo in testa di far ringalluzzire i suoi rossi ed i suoi gialli che prendono di sorpresa solo chi non è abituato a un astrattismo di corpo e cuore. Piuttosto gli è che Gallingani, nel percorso della sua attuale produzione metarealista, insiste con un vigore direttamente proporzionale alle brutture del mondo, e la smette di essere quel signore posato che in molti conosciamo. Maturità, consapevolezza o quel che vi pare, oggi Gallingani ha il pieno diritto di affacciarsi come fa l’uomo al balcone del cortile condominiale per gridarle senza più freni a quella maleducata dirimpettaia che tiene la radio ad alto volume su canzonacce sgradevoli e tormentose. Finalmente, perché è compito dell’artista fare in modo che la sua voce non sia sopravanzata dal brutto.
La cosiddetta critica, ed i benpensanti dell’arte ci hanno abituato alla repressione dei talenti quanto al distacco da ciò che fu nuovo ed a loro pareva bestemmia, si sa. Ma aver mandato giù le pillole amare di una carriera in cui l’Europa inneggiava ad un grande come Gallingani, nel tacere della sua Firenze, è finalmente servito ad estrarre dal garbo di quel signore composto un urlo che oggi è continuo, monitorio, incisivo e puntuto come i suoi ultimi quadri. Ne ha avuta tanta di pazienza, Gallingani! E silenziosamente ha preso sottobraccio esperienze, pennelli e cavalletti ed è andato in giro a proporre e proporsi ottenendo extra moenia quei risultati che gli spettavano in patria.
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Oggi, candido come uno senza più dubbi, sale sul carro del vincitore anche il più diffidente di allora, e l’indifferenza che feriva è diventata carezza lieve, apprezzamento e perfino vanto. In questo, i soloni rispolverano la voltagabbanaggine non dotata di dignitoso freno. Ma questo, a Gallingani, non interessa. Il suo cammino è stato ad ostacoli, e lui lo sapeva dagli inizi. Perciò si trova a preferire oggi un vigore che sa di impeto giovanile, seppur le primavere si siano succedute in una certa quantità. Viene da chiedersi come mai accada adesso, e la spiegazione più razionale (è un astrattista, la razionalità gli piace per forza) sta nel fatto che gli anni hanno consegnato all’osservatore acuto le storie di un peggioramento ed un declino che in più di un caso paiono la regola, ahinoi. Un metarealista, cioè uno che passa attraverso e dentro la realtà del quotidiano, come Gallingani fa da più di mezzo secolo, non può né deve tacere, né allinearsi in maniera ripetitiva al suo stesso pensiero. Deve scavalcare i muri della convenzione (e ci è già riuscito molti anni fa) per dire che la sopportazione è finita, che dobbiamo svegliarci, che questo non è il mondo per cui lui e milioni di altri hanno lottato. Semplice. E diretto come un colpo sferrato da breve distanza sulla povera mascella del malcapitato pugile avversario.
Sa di far male, Gallingani, e non è certo uomo di guerra o combattimento. Anzi. Ma sa pure che il suo compito è quello di viaggiare dentro la realtà, raccontarla e sentirne gli effetti, anche quelli peggiori, per avvisare, incitare alla reazione, fare in modo che si insorga, finalmente, contro tutto ciò che devasta il bello del mondo, alla base di ogni sogno e di ogni sana educazione umana. Quello che tutti chiamano “il sociale” è per lui il pane quotidiano. Basta sentire la sua spiegazione sulla carta stampata, tratta dalla realtà del giornale, che contorna la gran parte delle sue opere, come una cornice di quelle ormai note tridimensionalità: “…è la voce degli altri, la voce di tutti. Non posso crogiolarmi solo nel mio pensiero. Il pittore racconta, ma ci sono anche gli altri che hanno da dire e non sono pittori… tutti hanno il diritto di esprimersi…”.
A servire il colpo, ben andato a segno, è dunque una combinazione di fattori che in Alberto Gallingani sono determinanti. L’ascolto degli altri, l’elaborazione razionale e lucida, la conclusione decisa. Ed era così anche mezzo secolo fa, quando dalle nebbie degli ismi si stagliava il suo netto voler dare altra linfa ed altra lingua alla intricata faccenda dell’astrattismo italiano. Non che i predecessori non meritassero, tutt’altro. Gallingani attinge con fervente e devota cura a chi lo ha preceduto. Ma era tempo di parlare usando un altro linguaggio e non di poggiarsi mollemente su una astrazione tutta rigorosamente geometria e colore. Allora, ed era l’inizio degli anni Sessanta, sembrava quasi un anatema, una faccenda scandalosa che per motivi noti a presenti al tempo ed a convertiti dell’ultima ora sono perfino troppo chiari. E così ci si mise di mezzo quel ramo del malcostume dei soliti noti della pittura nazionale che vuole emarginato l’innovatore. Il quale, senza esitazioni di sorta, trova culle più comode e prestigio più autentico girovagando da emigrante. Francia, Germania, Portogallo e molti altri altrove che non fossero i ricami architettonici della sua Firenze. Ma gli Dei della pittura e della fama sono imprevedibili quanto la direzione dello spostamento laterale di un pugile astuto, e fanno quel che vogliono infischiandosene bellamente di strombazzamenti e fuochi pirotecnici dedicati ai santi patroni del “nuovo”. Qualcuno capisce che la soluzione, come da secoli accade, è sotto il naso e non oltrefrontiera, e quelle sperimentazioni vanno via via prendendo terreno e vantaggio. Per farla corta, oggi un Gallingani in casa è un verbale di un atto di giustizia. È riconoscere una genialità lucida, coerente, intensa. È sapere che per anni, troppi, quel pittore accomodante e moderato nei modi ha avvitato i perni della sua macchina produttrice senza tralasciare niente, ha lavorato al dar corpo a sogni che erano sagge intuizioni, ha messo in moto una potenza che egli stesso controlla, in grado di porre nella astrazione la qualità dei volumi e delle spinte dinamiche, che a pensarci bene sono il nettare di quella tri- dimensione divenuta segno e colore ormai inconfondibili.
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La speranza di un artista è quella di essere ricordato per aver creato inventando, di lasciare un segno che faccia pensare a qualcosa di unico, identificabile, non assimilabile ad altro. Conoscendo bene Alberto Gallingani, il suo obiettivo è sempre stato quello di raccontare, riferire attraversando tempi e società. Il Metarealismo è questo, non vanteria o atteggiamento da artista. Gli interessa aver detto, aver interpretato e cantato la propria canzone nelle eterne note dell’arte. E se gli chiedete di guardare al passato, Gallingani farà i nomi di Masaccio, di Masolino, di Piero della Francesca e dei tanti che furono. Prima loro, prima i Padri, pare dire, con tutto quel che di magnificente ne derivò. Poi il resto. Il pugile ha deciso di chiudere il match usando forza ed astuzia e nulla lo ferma. Qualcuno, stupito, dichiarerà di esserne sorpreso. E invece il metarealista Gallingani alza i toni perché la dinamica delle vicende umane, oggi straripanti di crudeltà ed ingiustizie, lo ha disgustato al punto da fargli gridare cose che prima sussurrava. La voce, incisiva e potente, è sempre la sua. La speranza, che lui stesso alimenta in sé, è quella di tornare ad un tono normale. Che per Gallingani è comunque e sempre uscire dal coro, al quale non è mai appartenuto.